Educazione in emergenza: come garantire ai minori di continuare ad imparare e a sviluppare le loro abilità in contesti instabili o di crisi? Ne parliamo con Michele Senici, direttore dell’educazione di Still I Rise, nata per offrire istruzione di qualità all’interno del campo profughi di Samos.
Perché Still I Rise si occupa di educazione?
Still I Rise nasce nel 2018 come un’organizzazione grassroot, o “un movimento dal basso”. Tutto inizia da un gruppo di persone che individuano sul campo un problema molto pregnante ed urgente e si attivano per risolverlo. Il problema di cui parliamo è l’assenza di un progetto di educazione scolastica vera e propria all’interno del campo profughi di Samos, in Grecia.
Il campo profughi di cui parliamo, un campo infernale che ha ospitato fino a 7.000 persone, è stato chiuso e sostituito da un nuovo centro. Tuttavia, anche in questa struttura, inaugurata il 18 settembre e promossa dall’Unione Europea, si registra un vuoto enorme: l’assenza di un progetto scolastico.
I nostri fondatori Nicolò Govoni, Giulia Cicoli e Sara Lusek sono stati tutti volontari a Samos. Durante la loro esperienza con organizzazioni che si dedicavano agli adulti, si sono resi conto della mancanza di progetti educativi formativi per pre-adolescenti ed adolescenti. Per colmare questo vuoto sono nate l’organizzazione Still I Rise e Mazì, il nostro primo centro di emergenza in Grecia.
Quali sono gli elementi chiave dell’approccio all’educazione di Still I Rise?
Il nostro approccio educativo si è formato in risposta a bisogni concreti ed urgenti delle nostre studentesse e dei nostri studenti di Samos. Abbiamo scelto di adottare quegli approcci e tecniche all’educazione e alla formazione, che pensavamo potessero servire questi studenti nel migliore dei modi.
Questa scelta è stata improntata ai valori chiave per la nostra organizzazione, che investono il nostro modo di operare e il nostro approccio educativo. Sto parlando di: indipendenza, trasparenza ed efficacia. A prima vista potrebbero sembrare valori solo organizzativi, ma in realtà sono tutti anche dei valori educativi.
L’indipendenza, che per noi è anzitutto finanziaria, ci ha portati alla decisione di non voler accettare fondi da istituzioni o governi. Questo ci permette l’indipendenza operativa e così facendo anche una indipendenza educativa.
Proprio questo ci rende liberi di scegliere metodi che possano rispondere ai bisogni reali dei nostri studenti in maniera veloce, agile, precisa e puntuale. E questo per noi vuol dire essere efficienti.
Assicuriamo trasparenza sicuramente nei confronti dei nostri donatori. Però anche questo valore lo trasferiamo nella sfera dell’educazione e si riflette nell’orizzontalità del nostro metodo educativo.
Educazione in emergenza
A partire da Samos ne abbiamo fatta di strada. Dopo tanti mesi di lavoro ci siamo accorti che, sia dal punto di vista didattico, sia di benessere psicosociale dei nostri studenti, questo metodo funzionava. Quindi abbiamo voluto provare a portarlo avanti. Non solo diffondendolo geograficamente, ma anche perfezionandolo concettualmente.
Così nasce l’idea di ampliare il nostro approccio operativo. Abbiamo definito due modelli per due categorie, o contesti differenti. Educazione in emergenza ed educazione per ricostruire.
L’esperienza di Samos confluisce nel primo modello ovvero educazione in emergenza, che ci apprestiamo ad applicare anche in Repubblica Democratica del Congo. Fare educazione in emergenza per noi significa creare scuole informali, quindi non riconosciute, con dei curricula ad hoc in base al contesto.
In Siria ad esempio l’obiettivo principale è accogliere studentesse e studenti per un anno e “riallinearli” alle aspettative didattiche proprie per la loro età. Facciamo in modo che recuperino il tempo perso per rientrare nella scuola pubblica e conseguire un diploma riconosciuto.
Seguiremo un processo simile in Congo, ma con un’attenzione per la questione del lavoro minorile nelle miniere.
Nel centro in Grecia invece, continueremo a dare centralità al psycosocial support o supporto psicosociale, ma sempre attraverso la formazione. L’insegnamento di inglese, matematica, arte funziona come mezzo per promuovere il benessere globale dei minori. Minori che si trovano costretti a vivere per anni in campi profughi dalle condizioni oscene.
Educazione per ricostruire
Il secondo modello, che è quello dell’educazione per ricostruire, è un progetto innovativo di scuole internazionali. Queste scuole accoglieranno ogni studente per un periodo di 7 anni. Un orizzonte temporale piuttosto lungo, soprattutto se prendiamo a riferimento il contesto di progetti di cooperazione.
Scuole che offrono un curriculum e un diploma specifico che è l’International Baccalaureate , garantendo la più alta qualità a studenti vulnerabili e rifugiati. Nel panorama delle scuole internazionali è uno dei diplomi più riconosciuti al mondo per l’accesso all’università e per carriere professionali di prestigio.
Questo è quello che facciamo in Kenya, che stiamo cercando di fare in Turchia e al quale presto lavoreremo in Colombia.
Per scegliere dove implementare questo nostro progetto di educazione valutiamo bene il contesto. L’elemento comune ai diversi contesti dove lavoriamo è l’esistenza di un’area urbana al centro di una dinamica migratoria. In più devono esistere garanzie di stabilità per l’infrastruttura e “un respiro internazionale” per la scuola.
Possiamo pensare ad esempio a Nairobi, che è un porto sicuro in Africa occidentale per persone provenienti da un gran numero di Paesi dell’Africa occidentale. Simile è il caso della città turca di Gaziantep, al centro della politica nazionale di gestione dei migranti siriani.
Quali sono le peculiarità del vostro programma educativo?
Abbiamo usato tante tecniche e tanti metodi sul campo. Quando è arrivato il momento di formalizzare il nostro approccio, abbiamo identificato quattro pilastri del nostro metodo educativo.
Il primo pilastro è l’essere student-centered, quindi mettere lo studente al centro. Il secondo è “school is home”, ovvero “la scuola è casa”. Il terzo è “ teacher = mentor” cioè l’insegnante è un mentore. Il quarto e ultimo è “global thinking”.
L’essere student-centered significa ad esempio ammettere studenti che siano rappresentativi dei gruppi di rifugiati e delle popolazioni locali dell’area in cui operiamo. Inoltre, devono essere presenti ragazze e ragazze, bambine e bambini in proporzioni uguali.
Inoltre si concretizza nel “personalismo pedagogico”, dando centralità al volto e al nome. Ad esempio nelle nostre scuole non ci si chiama mai per titoli, ma sempre per nome, perché crediamo nella prossimità della relazione educativa.
Quindi puntiamo a costruire relazioni educative di valore, solide, durature. Pensiamo che comunicare ai nostri bambini che sono conosciuti per nome, e che noi siamo disponibili ad essere chiamati per nome, perché siamo persone aldilà del titolo di professore ecc. sia centrale.
Partecipazione democratica e supporto psico-sociale
Consideriamo fondamentali anche vari strumenti di partecipazione democratica che attiviamo. Ad esempio il sistema dei capitani di classe, che vengono eletti dopo un workshop sulla democrazia.
Tutti i giorni le classi hanno 20 minuti per lavorare con i loro capitani. Poi i capitani, una studentessa e uno studente per ogni gruppo, si incontrano con l’amministrazione della scuola per discutere gli elementi emersi in assemblea, la richiesta di nuovi progetti, valutare gli insegnanti e gestione della scuola e in generale la qualità del servizio.
Questo significa per noi mettere gli studenti al centro, fare concretamente in modo di ascoltarli sempre e che da questo ascolto nascano proposte per rispondere ai bisogni degli studenti.
C’è poi sempre un grande investimento sul psycho-social support. Si ha sempre fin dall’inizio delle operazioni in un contesto una/un Child Protection Officer che offre a richiesta degli studenti i suoi input con sessioni individuali, che segnala e mette in contatto con altre organizzazioni, che attiva uno/una psicoterapeuta se necessario.
L’importanza di una scuola aperta
“School is home” per noi è un po’ un riferimento a Don Milani e alla scuola aperta sempre. Se dei bambini non vogliono andare a scuola, per noi l’unica spiegazione è che la scuola è fatta male. Se la scuola è fatta bene i bambini sono sempre contenti di andarci. Quindi la nostra scuola dev’essere un luogo bello ed avere spazi accoglienti e sicuri.
Dove i bambini possano accedere alle risorse liberamente, sperimentare e sentirsi a loro agio. Ma anche riposare, leggere, divertirsi con giochi da tavolo e allo stesso tempo prendersi anche cura di questi ambienti, con dei turni di pulizia.
Ascolto attivo e global thinking
Vogliamo una scuola che sia davvero molto accessibile. Noi siamo aperti dal lunedì al sabato dalle 8 alle 18, perché pensiamo che l’esposizione ad un ambiente del genere educhi al pari delle lezioni.
Noi pensiamo che quel tempo scolastico non formale sia da valorizzare quanto il tempo classe. Perché crediamo nel valore che le/gli insegnanti possano avere nella vita degli studenti, nel momento in cui seguono gli approcci scelti da Still I rise.
Di solito in una giornata di scuola il 50% del tempo è tempo speso in classe, il resto è costituito da: pause, tempo libero, pasti, attività di doposcuola, che chiamiamo “non formale”.
L’ascolto attivo, la prossimità, il giocare insieme, chiacchierare, anche l’annoiarsi, il raccontare di sé. Così come i momenti di confronto con il resto del team, con il Protection Officer, con i dirigenti scolastici, ecc. L’insegnante attraverso queste azioni costruisce relazioni di valore e diventa un punto di riferimento, una figura guida per lo studente.
Infine il global thinking è il nostro approccio al contenuto della didattica e ai metodi che usiamo. Una didattica in cui l’insegnante è un facilitatore di domande e non la persona che “consegna” le risposte. Una didattica che sia sempre uno stimolo a guardare fuori per i bambini, per orientarsi rispetto a cosa succede nel resto del mondo.
Questo a maggior ragione nelle scuole internazionali, con un’attenzione alla comprensione delle dinamiche locali come punto di partenza per comprendere le dinamiche globali.
Come avete affrontato l’emergenza Covid nelle vostre scuole?
Lo abbiamo fatto in maniera diversa a seconda del Paese e delle limitazioni vigenti.
In Siria la situazione Covid è stata ed è ancora critica. Però essendo nella Siria libera, nel Nord Ovest, non ci sono enti governativi in grado di dare restrizioni rigide. Abbiamo chiuso e aperto il programma a singhiozzo, a seconda della situazione ma non abbiamo mai dovuto chiudere per mesi interi. Abbiamo così potuto garantire una presenza costante, nonostante brevi pause.
A Samos la situazione è stata molto molto complicata. Abbiamo lanciato la settimana scorsa attraverso il nostro dipartimento di advocacy un report sulla gestione del covid nelle isole greche e in particolare a Samos. Se a bambine e bambini che arrivano nelle isole greche il diritto all’educazione viene negato, dall’inizio della crisi del Covid la situazione è peggiorata ancora.
Tutto il lavoro delle organizzazioni non governative per l’educazione è stato congelato. Quasi inimmaginabile adottare la soluzione europea di distribuire tablet e dispositivi mobili con dati internet ai bambini che vivono in condizioni pessime, in un campo infestato dai topi.
Ci siamo trovati di fronte una difficoltà enorme e ci siamo strutturati in maniera emergenziale. Avevamo dei membri del nostro team sull’isola che portavano homework packs, cioè pacchi di fotocopie di compiti ai nostri studenti. Abbiamo attivato una sorta di distance learning su whatsapp, usando il telefono dei genitori.
Anche in questa fase particolare, la sfida principale a Samos era assicurarsi che questi bambini fossero ascoltati. Che sentissero la vicinanza e la disponibilità da parte degli insegnanti, anche e nonostante le misure anti-Covid.
In Kenya, dopo un anno di completa chiusura, le scuole hanno riaperto i battenti all’inizio del 2021. Poi però il governo ha stabilito undici settimane di vacanze scolastiche di midterm da marzo a maggio.
È stato complesso ma il nostro staff ha risposto velocemente. In 14 giorni abbiamo acquistato 140 tablet, attivato le sim card con internet e formato tutti i nostri insegnanti per la didattica da remoto.
Una volta distribuiti i dispositivi, abbiamo costruito con le autorità locali un piano per far tornare gli studenti a scuola qualche ora a settimana. Attraverso un programma alimentare di supporto, gli studenti potevano comunque venire e ricevere assistenza per i tablet ecc. Abbiamo fatto sei settimane di didattica online, con tutte le difficoltà del caso. Poi fortunatamente siamo tornati in presenza.
In tutte le sedi, ovviamente, la nostra Covid-response ha incluso informazione sul virus, sensibilizzazione sul testing, la distribuzione di maschere, igienizzante, ecc.
Come valutare l’impatto del vostro approccio?
In Grecia purtroppo nel lungo termine è irrilevante quello che facciamo, nella misura in cui continueranno ad esserci delle autorità e delle politiche che impediranno agli studenti di continuare la loro formazione.
A Samos abbiamo avuto grandi successi, che vengono dalle lotte individuali dei nostri studenti. Abbiamo Nahid una ragazzina afghana di 14 anni, che ha documentato sui social network con un inglese impeccabile il suo viaggio migratorio sulla rotta balcanica. Era arrivata da noi che ne aveva 12, prima non aveva mai avuto esperienza di scuola ed è con noi che ha imparato l’inglese.
Possiamo guardare ad altri studenti, soprattutto minori non accompagnati, che abbiamo sostenuto grazie al dipartimento di advocacy. Siamo riusciti ad inserirli in programmi di corridoi umanitari o di relocation all’interno dell’Unione europea e quindi hanno avuto l’opportunità di ricevere un’istruzione.
In Siria tutte gli studenti delle prime classi sono ora rientrati nella scuola pubblica, quindi per è stato un grande successo.
In Kenya siamo al primo anno scolastico di 7, che è l’anno preparatorio per uniformare le competenze e le conoscenze dei nostri studenti che hanno background molto diversi, e iniziare poi il vero e proprio programma. Per ora se consideriamo i livelli di dicembre 2020, quando abbiamo aperto la scuola, i nostri bambini stanno imparando velocemente e il futuro ci sembre promettente.
Still I Rise si basa solo su donazioni individuali, come assicurate la sostenibilità delle vostre scuole?
Sicuramente la sostenibilità è un tema molto importante. Per questo lavoriamo ad una pianificazione finanziaria molto attenta, con un’analisi del rischio molto precisa, che guarda ai prossimi 5-10 anni.
Poi Still I Rise nasce attraverso e grazie ai social network, quindi continua a fare un lavoro costante di fidelizzazione del donatore. Lo fa attraverso una strategia comunicativa e relazionale il più possibile trasparente, onesta, generosa di informazioni. A questa si affianca la ricerca di fondazioni familiari, enti e fondi che si allineino al nostro codice etico.
La sostenibilità è sicuramente un tema complicato, ma penso i donatori riescono a vedere la concretezza e l’efficienza, che ci caratterizzano.
Per noi, dopo aver visto in Grecia le istituzioni nazionali ed europee, ignorare i casi di violenza e le violazioni dei diritti dei nostri bambini, è impossibile pensare di accettare fondi da questi stessi enti. Prima di tutto come persone, e poi come organizzazione.
Attualmente poi, stiamo ragionando su nuovi percorsi di fundraising. Considerato anche che dall’apparizione del Covid abbiamo sospeso i programmi di volontariato internazionale, ci piacerebbe puntare a un coinvolgimento maggiore in Italia. Proporre ai nostri sostenitori di impegnarsi in prima persona per fare raccolta fondi e sensibilizzazione, progetti nelle scuole e/o eventi sul territorio.